Dalla padella alla brace

Il MAIALE

Le origini della lavorazione della carne di suino in Calabria vanno fatte risalire alla dominazione della regione da parte delle città stato greche. La prima testimonianza scritta di questa millenaria tradizione, però, è “solo” del 1700, quando Giacomo Casanova, in visita al vescovo Francescantonio Cavalcanti, riferì di aver mangiato i migliori salumi della sua vita. Nel documento l’avventuriero veneziano racconta che provenivano dalla parte ionica della Calabria . La carne di maiale è protagonista di molte preparazioni che ricorrono durante particolari periodi dell’anno. L’arrivo dei primi freddi rappresenta il momento perfetto per apprezzare il robusto sapore del caratteristico soffritto, del pane con lardo o la pizzata con le curcuci, che altro non sono che le rimanenze della cottura delle carni meno pregiate del maiale, chiamate a loro volta frittole, cucinate lentamente e nel proprio grasso nella caddara, caratteristico pentolone di rame zincato. Ancora oggi il rito delle frittole è molto in uso nella nostra terra.

Altri prodotti caratteristici sono le salsicce secche o soppressate, i salami piccanti variamente aromatizzati e a diversa stagionatura, capicolli e pancette.

LE FRITTOLE

Le frittole di maiale sono un piatto tipico della città di Reggio Calabria e delle zone limitrofe, si ottengono riscaldando la cotenna del maiale in un pentolone di rame stagnato, detto caddara.

Il pentolone viene foderato al suo interno dalla cotenna del maiale, facendo attenzione a che il grasso sia rivolto verso l’interno. In tal modo esso si scioglie senza aggiunta di acqua.

Quando il grasso è parzialmente sciolto si dispongono, con particolari accorgimenti in relazione alle dimensioni ed al tipo di carne, le costine e le parti meno nobili del maiale (collo, guancia, lingua, muso, orecchie, gamboni, pancia, rognoni e tutte quelle parti che non possono essere consumate in altro modo) e si lasciano bollire a fuoco lentissimo nel grasso per almeno sei ore, aggiungendo solo sale e rimescolando frequentemente. Con questo procedimento la carne si impregna del sapore del grasso e diventa molto tenera, rendendo edibili anche le parti cartilaginee. Secondo tradizione la caddara,ovvero il pentolone, viene posta  fuori dalle abitazioni contadine durante la macellazione ed anche davanti alle varie macellerie della città, che il sabato preparano la cottura per servire già a metà mattinata le frittole, accompagnate a pane e cosparse di pepe nero. Le frittole sono da consumarsi preferibilmente calde.Le frittole a Reggio Calabria vengono consumate tradizionalmente in occasione della Festa della Madonna della Consolazione, patrona della città e più in generale durante alcuni periodi di festività (Natale, e soprattutto nel periodo di Carnevale, particolarmente nel giorno di Giovedì Grasso). In questi periodi, lungo le strade del centro cittadino è possibile sentirne il profumo che contribuisce a creare il pittoresco e caratteristico ambiente festivo popolare.

IL SOFFRITTO

Tipica prelibatezza dell’antica cucina reggina, Il soffritto, nell’accezione classica, è l’insieme di spezie ed ortaggi che serve per soffriggere qualcosa: dalla carne al pesce, agli intingoli per i diversi piatti di pasta. A Reggio Calabria ‘u suffrittu’ è un piatto gourmet, espressione di quella cucina tradizionale che non passa mai di moda e che ha come base la carne di maiale. Si tratta, infatti, di un succulento spezzatino a base di carne e di interiora di suino. La pietanza, un tempo, si preparava soprattutto durante la stagione invernale in concomitanza con l’uccisione del maiale.

LA CAPRA

In genere gli animali da carne sono il cosiddetto “scarto” costituito da:
• Animali vecchi, non più produttivi (capra in genere);
• Animali sterili, non in grado di procreare e quindi non più produttrici di latte (lastra o crapa strippa);
• Animali maschi giovani, al massimo di 6/7 mesi di età (ciaureddu e, quando castrato, zaccugnu);
• Animali giovani femmine, al massimo di 6/7 mesi di età (ciauredda, la migliore in assoluto per la delicatezza delle carni);

Escluso il capretto, che necessita di una trattazione a se stante per la sua diffusione sulle tavole non contadine e per il suo indissolubile legame con i riti pasquali, i primi quattro tipi vengono cucinati prevalentemente in umido, con piccole variazioni degli ingredienti usati, che generalmente risultano essere: cipolla, pomodori (da preferire quelli tondi rossi, con ancora qualche sfumatura rosata, perché molto succosi), olio di oliva, aromi come prezzemolo, basilico, rosmarino, origano, peperoncino e alloro.
In alcune preparazioni si usa, all’interno della pentola, ricoprire la carne e gli altri aromi, con acqua (crapa bugghiuta).
La cottura ideale, la cui origine risale al periodo magno greco (dal VII secolo a. C. in poi), è quella che prevede il tegame di terracotta ed il fuoco a legna. Tuttavia anche la cottura nelle pentole moderne (acciaio, alluminio e rame) garantisce risultati eccellenti. La carne è cotta quando si distacca facilmente dall’osso.
Con il sugo (che si consiglia di passare al passatutto, per eliminare l’eventuale presenza di ossicini) si condisce la pasta (rigorosamente maccheroni fatti a mano o ziti) sulla quale va sparso abbondante pecorino o, meglio ancora, ricotta salata.
Nella versione bugghiuta si usa cuocere la pasta direttamente nell’acqua di cottura della capra.
Esistono, comunque, altre preparazioni, come ad esempio la capra cucinata al ragù oppure arrostita sulla brace (in questo caso si utilizzano solo animali giovani).
Interessante è anche la preparazione della cosiddetta capra sotterrata, le cui origini vanno ricercate in antichi riti tribali: per la complessità del piatto, richiede condizioni particolari che pochi possono disporre.
Innanzi tutto bisogna disporre di un terreno all’aperto, nel quale va fatta una fossa della profondità di circa 60 cm, della larghezza di circa 50 cm e della lunghezza di circa un metro. Il suo fondo, per isolarlo dalla terra, va “foderato” con uno strato di sabbia e felci.
Scuoiato l’animale e conservatane la pelle, si procede a farcire la carcassa con vari aromi: rosmarino, prezzemolo, origano, cipolle, sale, olio, alloro.
Completata la farcitura, si stende la pelle con il lato interno verso l’alto e, su questa, si deposita l’animale. Si aggiungono ancora aromi e si procede a ricucire l’animale dentro la sua pelle.
La capra, così ricomposta viene adagiata sul letto di felci, all’interno della fossa; viene, poi, ricoperta con altre felci e su queste si deposita uno strato di terra alto circa 10-15 cm.
Richiusa la fossa, su di essa si accende il fuoco, usando solo legna senza carbone, per circa 7/8 ore.
Aperta la fossa dopo questa lunghissima cottura, si estrae l’animale che, scucita la pelle, viene spezzettato e servito ai commensali dal “cuciniere”.

Tradizioni a tavola